Elena Elisabetta Grebaz
Partenze
Milano, giugno 2003
– Cian!
Un suono leggero, quasi un sussurro, in questo corridoio affollato di lunedì mattina. La gente si accalca agli sportelli, esami, ritiro cartelle, prenotati. La macchinetta della fila sputa interminabili numeri che poco dopo lampeggiano sul display. Ansia, confusione, rumore.
E io, che potrei già essere in pensione, continuo a tornare qui, in questo grande ospedale di Milano, perché suor Elisa vuole solo me quando ha un guasto in laboratorio. Ho un camice bianco, da tecnico, e mi scambiano tutti per un medico, anche la signora che adesso mi guarda e dice:
– Scusi, dottore, dove devo andare per la radiografia?
– Ah, signora, non son dotor mì, comunque scenda le scale a destra!
La mia parlata triestina salta fuori ogni tanto, anche dopo tutti questi anni. Sarà per questo che mi ha riconosciuto.
– Cian!
Una musica dal passato, lieve e dolorosa come un addio.
Mi fermo. La cerco. Poi la musica cessa all’improvviso. I suoi occhi, un fermo immagine nel caotico risveglio di un lunedì mattina.
Parenzo (Istria), ottobre 1957
– Così parti!
Abbassa gli occhi e trema.
– Sssh! Non dire niente, ti prego!
Le metto un dito sulle labbra e la stringo forte.
– Non stasera. Fingiamo che questa sera non finisca mai.
– Fingiamo quello che vuoi, Cian, anche di amarci…
– Non dire così, Giulia, lo sai che ti amo e vorrei portarti con me!
– Mio padre non mi lascerebbe mai. E poi dove mi porteresti?
Ora alza gli occhi e mi guarda fiera, con sfida.
– Questa è la nostra terra, Cian, non possiamo abbandonarla!
– Oh, Giulia, questa terra non ci appartiene più se ci impediscono di essere ciò che vogliamo. Io sono italiano, voglio essere italiano. Questa è una terra deprivata della sua stessa identità. Torturata, violentata, rossa come il sangue che scorre dalle sue ferite. Guarda!
Prendo una manciata di terra e la faccio cadere lentamente davanti ai suoi occhi, che si riempiono di lacrime. Ci abbracciamo in quel triste tramonto ottobrino, davanti al mare dove ci conoscemmo molti anni prima, dove ci baciammo salutando l’alba di un futuro che ci fu tolto.
Camminiamo sulla spiaggia, mano nella mano, tristi. Da un caffè aperto le note di un motivo alla moda, in italiano. Raggiungiamo la gente che balla, fintamente contenta. A un tavolo mangiano sarde fritte e brindano con bicchieri colmi di Malvasia istriana. Celebrano gli addii, quelli veri. Annunciano il viaggio più spaventoso, che non è la morte, ma l’esodo verso l’ignoto.
Giulia assaggia un po’ di vino e già le gira la testa. Non si è mai abituata. Non è come le donne di qui. E’ piccola, fragile, persa nel suo cappottino di lana rossa. Si stringe al mio braccio. Le prendo la mano e la bacio.
All’improvviso si sentono delle urla. La musica si ferma. Un tavolo è rovesciato. Alcuni ragazzi entrano nel locale con passi pesanti e visi stravolti. Ubriachi.
– Maledetti italiani! Andatevene dalla nostra terra! La nave vi aspetta a Pola! Creperete in mar!
Prendo Giulia per un braccio e la porto fuori. Corriamo. Ci fermiamo dietro un portone. Piange, si stringe a me e singhiozza.
– Non ti rivedrò mai più, lo so, mai più!
– Smettila, ti prego, smettila!
La bacio sulla bocca per farla tacere, per far tacere lo strazio dentro me.
Stasera perdo tutto. L’amore, gli amici, la mia casa, la mia vita. Niente mi appartiene, niente mi apparterrà più. Sono un naufrago in un mare di oblìo.
Quella sera ci amiamo come non abbiamo fatto mai. Il dolore è così forte da sembrare irreale. E’ come se la mia anima uscisse da me e si librasse nel vento. Vedo due amanti uniti nel loro ultimo respiro, sento le onde che si frangono sugli scogli, l’odore del mare, del mio mare d’Istria.
Alla fine siamo partiti, con la nave da Pola. La “Profuganda”, come le chiamavano lì. Eravamo in tanti. C’eravamo noi: padre, madre, sorelle e io. Poche cose. Un vestito sopra l’altro, sopra l’altro, sopra l’altro. Ricordi, necessità. Qualche soldo, un disegno che feci da piccolo, una fotografia vicino a un muro scrostato. Giorni di festa, giorni di lavoro. Tutto finito.
Il fischio della nave, pochi amici sulla banchina, quelli che hanno scelto di restare, quelli che non ce l’hanno fatta, quelli che hanno ancora più paura di noi.
Non stacco gli occhi dalla costa. Scruto i volti, le mani alzate. Dove sei, piccola Giulia? Dove sei, amore mio?
E proprio mentre abbasso gli occhi rassegnato, eccola là, in disparte, una macchia di rosso tra il grigio di una mattina che non dimenticherò mai.
Milano, giugno 2003
– Ciao Luciano.
E’ seduta su una sedia dell’attesa. La guardo e mi siedo accanto a lei, senza parlare.
– Ti ho riconosciuto, sai? La tua voce, come avrei potuto scordarmela?
L’emozione sta travolgendo la mia mente. Apro la bocca e non esce suono.
– Giulia…
– Cian.
– Oh, Giulia, perché non hai più risposto alle mie lettere?
– Non chiedere niente, ti prego. Non c’è niente da dire. I nostri destini non erano legati, si sono solo sfiorati.
Le prendo le mani e me le porto alla bocca. Sorride dolcemente, mentre i miei occhi si riempiono di lacrime di rimpianto.
Al caffè dell’ospedale riusciamo a parlare di noi. A raccontarci le nostre vite. Il mio vagare da un campo profughi all’altro, fino all’arrivo a Monza, il suo matrimonio con Giovanni. Sì, Giovanni, una brava persona, lo ricordo. I nostri figli, i nipotini. Lei vive a Trieste adesso, a Milano ci è venuta perché è malata, gravemente malata. Qui la cureranno, la rassicuro, mentre non le ho ancora lasciato le mani.
L’ha accompagnata suo figlio Luciano… gli ha dato il mio nome!
Suono di cellulare. Lo cerca nella borsetta e risponde.
– Sì, sono al bar con un vecchio amico. Vieni a prendermi.
Le prometto che verrò a trovarla quando sarà ricoverata, no, non sono un medico – anche tu, Giulia! – sono un povero tecnico di laboratorio in pensione, molto acciaccato.
Alla fine ci alziamo, mentre un uomo alto e leggermente brizzolato fa un cenno di saluto e si avvicina al nostro tavolo.
Mi volto e gli tendo la mano con un sorriso.
Ha gli stessi occhi miei.
(“Partenze”, 2012 Intermedia Edizioni)
Tre
Ho la faccia premuta sul pavimento sporco. Sento gli occhi bruciare di lacrime, l’odore acre del suo sudore, il sapore del sangue in bocca. Lui è su di me. Il suo alito pesante sul collo. Mi dice cose oscene. Le sussurra all’orecchio come farebbe un innamorato. Mi sembra una scena di un film. E’ come se stessi osservando tutto da un altro punto della stanza. Vedo lui. Trent’anni, fisico atletico, jeans strappati ad arte, t-shirt griffata, sguardo chiaro, assente. Vedo me, divisa della Polizia di New York City, in balìa di un folle in questa camera d’albergo sulla West 63ma di Manhattan.
Non piangere, Linda, non piangere!
– Adesso voltati, troietta!
Non parlo. Sono un Criminal Profiler. Laureata in psicologia ad Harvard, specializzata in crimini seriali, conosco il mio mestiere. So esattamente cosa devo fare. Nessuna empatia. L’empatia sconvolge la mente. Calma, devo stare calma. Sono supina adesso. Mi punta gli occhi negli occhi. Ghiaccio, vacuità, assenza da sé. Incarna un altro. Il demone della follia che lo perseguita. Ne ha già uccise sei così. E io sarò la settima. Stuprate e sgozzate. Ci si è divertito, poi. Emula Jack the Ripper, lo squartatore inglese. Fa scempio dei corpi. Arriva fino all’utero, in un estremo tentativo di possedere il luogo da cui è venuto, la madre. Sorrido, nonostante tutto. Ci rimarrà male quando scoprirà che il mio non esiste più, asportato chirurgicamente da un’isterectomia che mi ha devastato più la testa che la pancia, anni fa.
– Cazzo ridi, stronza!
Ha un coltello da cucina in mano. Lo usa per tagliarmi la camicetta. Cerco di divincolarmi, ma è troppo forte per me. Adesso mi strappa anche il reggiseno.
Dio, se ci sei, fa qualcosa per me, ti prego! Adesso!
Non credo più in Dio, da molto tempo, ma ora che non ho la mia Glock 19, non mi resta che Lui. Ti prego, fammi morire subito. E io sarò la settima. Con la lama affilata disegna il profilo delle areole, mentre i capezzoli si induriscono, mio malgrado. Urlo dentro, ma non un suono esce dalla mia bocca.
– Raccontami, Linda, raccontami dei giochi che fai con i tuoi amichetti!
Dove siete? Lo so, ho sbagliato a venire qui senza informarvi. Ero arrabbiata con te, Luc. E Mike ha preso le tue difese. Ho odiato pure lui. Stupida donna. Hai sempre ragione tu, Luc, anche stavolta. Anche stavolta. Troverete il mio corpo in questa schifosa stanza d’albergo. Mike piangerà, già lo vedo. E io non ci sarò a consolarlo, caro vecchio Mike. Tu non verserai una lacrima, ma non potrai più dormire. Ricomincerai a bere fino a stordirti, senza dire una parola. E’ strano come in questo terribile momento l’unica cosa che mi venga in mente sia il nostro incontro, il giorno in cui mi assegnarono alla vostra squadra.
Adesso mi sta sfilando i pantaloni. Mi taglia le mutandine. Ormai non reagisco più. Spero solo che faccia presto. Che mi uccida, poi. Fisso un quadro alla parete. Una spiaggia bianca. Una palma che s’inchina all’oceano. E’ là che voglio andare, quando sarà tutto finito. E io sarò la settima.
E’ così che ci si sente ad essere stuprata? Generazioni di donne e bambine passano davanti ai miei occhi, mentre un animale si muove ansimante dentro me. Trattengo il fiato.
– Dimmi di loro, ve la spassavate vero? La favola del distretto, voi tre.
Noi tre. Siamo stati una squadra perfetta, Luc. All’inizio mi odiavi, lo sapevo. Ma poi il caro vecchio Mike, con la sua dolcezza, ti ha convinto che ne valeva la pena e che non vi avrei rubato niente, avrei solo perfezionato il vostro sodalizio maschile.
Mike, mi mancherai. Mi mancheranno i tuoi sorrisi, i tuoi baci rubati e tutte le volte che ci provavi inutilmente. Ti ho amato, sai? A modo mio. Ma lo sapevi che non ero lì per te. Fin dall’inizio. Ero per lui. Lui che non mi ha mai sfiorata con un dito. Lui che continuerò ad amare per sempre. Lui che non è qui per me, ma per un’altra, che ogni sera lo aspetterà a casa e gli dirà ciao amore, com’è andata oggi. E io sarò la settima.
Quanto tempo è passato? Fa molto freddo ora. Hanno spalancato le finestre? La camera è piena di gente. Ci sono anche quelli della scientifica. Hanno dato l’allarme. Lui è fuggito. No! Non è servito a nulla. Mike piange in un angolo. Mi avvicino a lui, lo abbraccio, ma non si gira. Che c’è, Mike? Non puoi essere così arrabbiato!
Poi mi volto e ti vedo. Non sei contento di vedermi, Luc? E’ tutto finito, dai! Lo so, ho sbagliato, ma prometto che non farò più di testa mia. Farò la brava. Mi hai sempre trattata come una bambina, e forse lo sono. Adesso guardami, però. Ti prego.
Mi avvicino. Luc è a terra, inginocchiato. Sembra stia pregando. Lo raggiungo e mi inginocchio vicino a lui. Luc! Poi guardo la sua mano che si muove. Si muove verso il volto senza vita che giace sul pavimento sporco di sangue di questa schifosa camera d’albergo sulla West 63ma di Manhattan.
Chiude gli occhi a quel viso di donna, mentre con un sussurro strozzato le dice, ti amo, Linda.
(“Partenze”, 2012 Intermedia Edizioni)